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Nel romanzo pubblicato da Piemme, Daniela Palumbo, con la forza del suo racconto e con la maestria in cui articola i dialoghi, veicola la nostra attenzione su una questione a lungo dibattuta dalla filosofia: nasce prima la legge o prima la morale?

di Catia Proietti

Siamo in Germania, 1944, Iris ha undici anni e le sue giornate trascorrono in una quiete apparente tra le lezioni in casa con l’istitutrice Helga, una donna a cui è molto affezionata, e i momenti con sua madre. Ma d’improvviso qualcosa cambia nella sua vita.

Suo padre, comandante di un importante progetto per il Grande Reich, dovrà amministrare un campo prigionieri alle porte di Berlino. Finalmente gli Hammer avranno una loro grande casa, un bel giardino, dei domestici, persino un’altalena e uno stagno accanto al quale sua madre potrà far crescere i fiori che ama. Iris potrà andare a scuola, avere dei compagni.

Apparentemente le si prospetta un mondo perfetto.

Ma è davvero così?

Il suo giovane sguardo nota quello che non le viene detto: la serranda abbassata della cartolibreria gestita da madame Elena che si scopre sposata a un ebreo, il dolore di Helga per una figlia che rimarrà per sempre bambina e l’arrivo di un giardiniere che è però un prigioniero, un ebreo che suo padre e sua madre considerano feccia dell’umanità. Qualcuno che merita di essere punito con calci, pugni, insultato e ridotto alla fame perché ladro, disonesto, bugiardo. Qualcuno che non ha un nome proprio. Qualcuno che per tutti è solo “Jude”.

Iris guarda tutto. Cerca di adeguarsi alle regole dei genitori e della nuova insegnante, di condividerne le motivazioni, ma Iris non guarda solo con gli occhi. Iris legge la realtà con il cuore, una crepa si apre dentro di lei ed è proprio attraverso quella crepa che osserva il dolore dell’altro sentendolo dentro di sé.

Un giorno, Iris nota il prigioniero inspirare profondamente di fronte a una pagnotta di pane appena sfornata e incontra il suo sguardo: è solo un giovane uomo, affamato e denutrito, non più un prigioniero.

“Devi fare come se non esistesse. Perché non esiste. È solo un ebreo” le dice suo padre. Iris si sforza di conformarsi all’atteggiamento degli altri, ma la crepa, aperta dentro di lei, le dice che è ingiusto ciò che il giovane subisce.

Daniela Palumbo, con la forza del suo racconto e con la maestria in cui articola i dialoghi, veicola la nostra attenzione su una questione a lungo dibattuta dalla filosofia: nasce prima la legge o prima la morale?

In un delicato e struggente dialogo con la nonna paterna, Lena, a giudizio dei familiari una donna debole, di cui non avere fiducia e stima, Iris comprende la sua infelicità in un mondo che sente sbagliato e accoglie ciò che lei le confida: “Quando vedi un uomo a terra, chiunque sia, non ti vergognare a sentire su di te il suo dolore, come ti capitava con il prigioniero ebreo all’inizio. Non te ne vergognare mai. Neppure se è ebreo, Iris. È questo sentire la sofferenza dell’altro che ci rende esseri umani.”

Daniela, attraverso lo sgomento di Iris, ci racconta che esiste dentro di noi la capacità di intuire e cogliere il dolore dell’altro. Anche quando la legge è ingiusta, anche quando l’uomo crea muri e con la guerra pensa di ristabilire ordine, parola spesso usata dai genitori di Iris.

La guerra e l’annientamento dell’altro non è mai una soluzione.

Iris ci mostra il lento esercizio che tutti noi dovremmo operare su noi stessi chiedendoci ogni volta “Ma io potrei essere felice al posto di questa persona? Chi è questa persona? Come si chiama?”

Ecco, forse dovremmo cominciare dal nome. Dal nome dell’altro si comincia per poter costruire la pace.

A un passo da un mondo perfetto, Daniela Palumbo, Piemme