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È ai bambini e agli uccelli, che devi chiedere il sapore delle ciliegie”. Così scriveva Goethe e questo verso mi è venuto in mente leggendo il libro di Anna Sarfatti intitolato Pane e Ciliegie. Un libro molto bello, dove si intrecciano cultura, solidarietà, cura, gioco attraverso il fil rouge del sapore delle ciliegie.

Nel libro si narra la storia di Israel Kalk “ l’uomo che difendeva i bambini ebrei sotto il fascismo”, come si legge sotto il titolo. Una storia vera che Anna Sarfatti ricostruisce in base alle informazioni dell’Archivio del Centro di Documentazione Ebraica  contemporanea di Milano. La storia della Mensa dei bambini che l’ebreo Kalk aveva istituito a Milano nel 1939 per offrire ai piccoli profughi ebrei cibo, ma anche indumenti, cure e molto altro. Circa 300 bambini furono assistiti sino al 1943. Poi i bombardamenti degli Alleati dell’agosto di quell’anno posero fine all’esperienza.

Credo sia un’opera preziosa per vari motivi.

Intanto, è una storia vera e mai raccontata. Inoltre, si tratta di  una storia positiva che porta uno spiraglio di luce nell’orrore di quei tempi. Una mia cara amica ebrea, Manuela Sadun Paggi, diceva che da come si racconta la shoah può dipendere molto e questo libro lo dimostra.

Anna Sarfatti parte dai bambini che, come scrive all’inizio, non possono capire ciò che accade. Perdere di colpo compagni, la maestra, il padre, e per cosa? Perché?

Il modo di raccontare è sobrio e fa risaltare ancora più efficacemente l’insensatezza e la crudeltà degli accadimenti. Una ragazza, Miriam, che torna a casa e non trova più il babbo ci lascia senza fiato: trova un calzino per terra e si chiede come avrebbe fatto il padre senza un calzino, poi se lo mette nella mano facendo muovere le dita come faceva un tempo per rallegrare i genitori come fossero burattini…le sue parole non riescono a raggiungere la madre, che appare spenta, immobile, ma raggiungono noi in quel modo diretto e  senza scampo tipico di quando si lasciano parlare i fatti e i piccoli gesti del quotidiano.

Miriam è una dei tanti ragazzi e bambini aiutati da Israel Kalk. Per lui tutto inizia con un incontro ai giardini di Porta Venezia, quello con due piccoli profughi, Werner e Brigitte Retter, a cui offrirà latte e dolci in una latteria di via Lecco. In quei tempi a Milano, come a Genova, Trieste e altre città italiane, arrivavano molti profughi ebrei, tedeschi, polacchi, cecoslovacchi, spesso poverissimi. Cercavano di emigrare e quindi di procurarsi documenti e i bambini spesso gironzolavano per le strade della città o nei giardini aspettando i genitori.

È subito dopo quell’incontro che Israel ricorda “quel giorno del 1914”: era da poco scoppiata la guerra mondiale e l’esercito dello zar era violento verso gli ebrei. Israel aveva dieci anni ed era stato costretto ad abbandonare il suo Paese in Lituania. Arriva infine a Milano dallo zio e questi lo aiuta. Questo aiuto e la dimostrazione di solidarietà ricevuti lo inducono a pensare che ora toccava a lui offrire aiuto a quei due piccoli profughi, perché “Nessuno dovrebbe sentirsi abbandonato”.

Ecco, questo è un tema profondo e di grande attualità, di fronte ai flussi odierni di profughi e immigrati che lasciano le loro terre a causa di eventi bellici, calamità naturali e persecuzioni. Anna Sarfatti riferisce della separazione dei padri da mogli e figli, dell’immigrazione ‘clandestina’ di ebrei dall’Austria in Francia attraverso le Alpi, la Lombardia e la Liguria tramite ‘passatori’, dell’indicazione degli ebrei come capro espiatorio a cui vengono imputate tutte le disgrazie causate dalla guerra, dalla crisi economica, dalla disoccupazione. Al di là del contesto specifico e per certi profili, unico, in cui si svolge la storia, non c’è dubbio, tuttavia, che molte dinamiche di quel tipo, in contesti diversi, si svolgono anche oggi.

E il libro di Anna Sarfatti ci offre, con questa storia vera, non solo il modo di riflettere e far riflettere i ragazzi su quegli accadimenti, ma anche un esempio di cosa si può fare se si mette in gioco la solidarietà, la generosità e anche un pizzico di follia. Dice Giorgietta al marito Israel, preso  da un momento di sconforto per i pochi mezzi a disposizione: “Se aspettassimo di avere tutto quanto serve, allora probabilmente nessuno di noi farebbe nulla per gli altri. Non credi? Un pizzico di follia è necessario”. Il numero dei bambini continua a crescere, ma né Israel, né gli altri membri del Comitato, tutti in condizioni economiche modeste, si tirò indietro “perché sentivano che era la cosa giusta da fare”.

Il Comitato cerca aiuto proponendo due modalità: l’invito alla propria tavola di un bambino profugo, oppure il contributo in denaro per un pasto alla mensa collettiva. Una sorta di ‘adozione  a distanza’ che fu l’unica modalità seguita: “evidentemente, annota l’autrice,  risultava più semplice versare il denaro che stringere un legame”.

Dalle merende in latteria nasce così la Mensa, inaugurata il 15 ottobre del 1939 presso una piccola pensione in piazza XXII Marzo. Quando i bambini aumentano la Mensa sarà trasferita in luoghi più ampi fino a trovare, nel maggio del 1940, la sede definitiva nei locali di una palazzina in Via Guicciardini, al numero 10. Scopriamo presto che, in realtà, è molto più di una mensa: vi si organizzano anche corsi di istruzione, raccolta di vestiario, cure; e anche la celebrazione di compleanni, festività e riti religiosi. Insomma, la Mensa si costituisce come una vera e propria comunità e offre la sensazione di ‘essere a casa’, come testimonierà Werner Retter. La Mensa rimarrà in Via Guicciardini  fino all’agosto del 1943, quando sarà bombardata.

Anna Sarfatti  racconta questa straordinaria storia di solidarietà e umanità in tempi disumani intrecciando abilmente le vite di personaggi veri e di personaggi evocati da quei tempi, e mettendo in luce lo spirito profondo che muove Israel con i suoi collaboratori e amici. “Vorrei provare a rammendare gli strappi delle loro vite”, dirà  Israel durante una riunione del Comitato.

Questo tentativo generoso di ricucitura dei rapporti feriti e lacerati dagli eventi di allora  attraversa tutto il racconto. Dalla gestione della Mensa al tentativo di seguire la sorte dei bambini che con le loro famiglie erano stati poi internati  nei campi; nonostante sia seguito anche dalle Questure, nulla fermerà Israel Kalk che continuerà a visitare le famiglie internate e a fornire aiuti morali ed economici.

Certo, Anna Sarfatti non ci risparmia ferite impossibili da rimarginare, come il destino di Arturo, suonatore di violino, che, con la mamma e la sorella,  sarà condotto a Milano e da lì, dal binario 21 della Stazione Centrale, partirà verso Auschwitz senza fare ritorno. Arturo stringe la conchiglia che gli aveva regalato la sua amica Miriam, e ricorda quando lei lo invitava ad andare incontro alla vita con maggiore leggerezza. “Non ci sarebbe mai riuscito, pensò, o forse solo con lei al suo fianco”. In queste poche, delicate parole, scorre tutto lo struggimento delle vite giovani a cui è stato impedito allora di sbocciare, di amare, di vivere. Un’interruzione crudele e disumana. Non è facile dimenticare i personaggi del libro, compresa la gatta Halina che sopravvive miracolosamente al bombardamento della Mensa.

Il libro ha una grande valore storico e documentaristico sul periodo tra il 1939 e il 1945  ed è un veicolo efficace per accostare i ragazzi di oggi a quelle vicende proprio perché raccontate anche attraverso gli occhi di coetanei o vicini d’età. Si scoprono molti dettagli, come i campi di internamento in Italia, in numero molto più grande di quanto ritenuto usualmente, oppure la vicenda degli ebrei imbarcati sul Pentcho, diretti in Palestina e naufragati nell’Egeo per essere poi internati  nel campo di Ferramonti: più che un dettaglio, una storia nella storia.

La bibliografia, la sitografia e alcune foto e testimonianze completano il volume che termina con una lettera di ringraziamento dei bambini della scuola di Ferramonti a Israel Kalk.

È una lettera che a mio avviso affida un messaggio in bottiglia per le generazioni di oggi e di ogni tempo in cui il razzismo, anche se in forme diverse, miete le sue vittime: “Speriamo – scrivono i bambini – che quando saremo adulti potremo seguire il vostro bell’esempio di amore verso il prossimo e per i bambini”.

Anche oggi vi è bisogno di rammendare vite e luoghi dove l’umanità si è scucita, a causa di sistemi che tendono a sopraffare, a perseguitare e a far crescere le disuguaglianze in modo insostenibile.

Occorre allora leggere, riflettere, fare ‘la cosa giusta’, come esortava Israel Kalk.

Quel sapore di pane e ciliegie che avvia l’inizio del libro e lo attraversa fino alla fine, ci ricorda che è dai bambini che dobbiamo partire, per ritrovare una riconnessione, oggi in parte perduta, con il mondo di cui facciamo parte.

Luciana Breggia

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