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shoahdi Daniela Palumbo, autrice di quattro libri per ragazzi sulla shoah:
Le valigie di Auschwitz, A un passo da un mondo perfetto, Il cuore coraggioso di Irena, Fino a quando la mia stella brillerà, Scolpitelo nel vostro cuore. Dal Binario 21 ad Auschwitz e ritorno: un viaggio nella memoria (questi ultimi due con Liliana Segre.

Ho aderito alla Carta della Memoria, della Fondazione Gariwo. Chi vuole può leggerla (ed eventualmente aderire a sua volta) qui https://it.gariwo.net/carte-di-gariwo/carta-della-memoria/

Gabriele Nissim – presidente di Gariwo e promotore dei Giardini dei Giusti nel mondo – ha enunciato la Carta per identificare e collocare la responsabilità della Memoria nel nostro tempo.

Ho aderito perché credo che il documento colga (e accolga) alcuni aspetti fondanti del rapporto fra Memoria e Tempo presente, stabilendo una rinnovata interdipendenza fra le due narrazioni. Una connessione che era urgente, oggi, identificare e orientare.

 

La Memoria abita la scuola? Come?

Il documento di Gariwo prende forma a partire dalle riflessioni dello storico israeliano Yehuda Bauer, secondo il quale, si legge nella Carta: “La Shoah è il genocidio paradigmatico del Novecento, un male estremo che ci permette di cogliere il punto più terribile dove può arrivare la distruzione dell’umanità sul nostro pianeta”.

“Bauer considera – scrive Nissim nel documento – che lo studio e la memoria della Shoah siano una lente di ingrandimento che ci permette di cogliere la genesi del male in ogni situazione”.

Non sono una storica, come lo è lo stesso Nissim, sono un’autrice. E posso parlare solo di ciò di cui ho contezza: la semina di Memoria all’interno della scuola, attraverso la letteratura per l’infanzia e l’adolescenza.

La scuola resta uno dei luoghi dove abita la Memoria. Molto più che in altri segmenti della società. Essa è un serbatoio importante di Memoria, grazie anche alle parole tessute per narrare i fatti che costituiscono la Shoah, ai bambini alle bambine, ai ragazzi e alle ragazze. Per questo dobbiamo incessantemente chiederci come e perché continuare a testimoniare la Memoria in ambito educativo.

La scuola, proprio perché abitata dalle nuove generazioni, è anche la comunità dove le trasformazioni della società si annunciano con anticipo rispetto ad altri contesti.

Un passaggio epocale che può cambiare la narrazione del mondo.

 

Ma c’è una interconnessione fra i cambiamenti sociali e la narrazione della Memoria?

Io credo di sì, oggi in particolare.

Con la deflagrazione della pandemia i cambiamenti sociali e culturali, già in atto, hanno subito, e subiranno, una accelerazione prodigiosa. Bisogna farci i conti, per non restare spiazzati: questo passaggio epocale sta cambiando la narrazione del mondo.

A cominciare dai dispositivi attraverso i quali i pensieri, le parole, le emozioni – nonché l’educazione sentimentale delle nuove generazioni – sono comunicati, e percepiti, fuori e dentro di noi. Oggi siamo tutti dentro queste sequenze finite di numeri – algoritmi – che agiscono per istruire il nostro pensiero alla semplificazione. Già ora i social e la A.I. (intelligenza artificiale) orientano la nostra percezione di ciò che è politicamente corretto, o scorretto. Determinando, in parte, il racconto di ciò che è giusto e sbagliato. Lecito o illecito.

I nativi digitali sono a loro agio dentro questo magma di contenuti che, se da una parte permette loro di accedere a una quantità di informazioni impensabile per le vecchie generazioni, dall’altra però ne interrompono la complessità, indirizzando il pensiero verso la polarizzazione delle emozioni, dei comportamenti, dei modelli di vita. Cambiare l’ordine delle cose che sono fondanti nella narrazione del mondo, è un attimo.

Nessuno di noi può interromperne il corso, ma proprio per questo diventa urgente, in vista del Tempo futuro, aggiornare i percorsi di Memoria nella scuola, per intercettare e sollecitare una appartenenza dell’anima che sia di lungo respiro – in una epoca di emozioni mordi e fuggi – alla pagina essenziale, UNICA, di Storia dell’umanità, da parte dei ragazzi e delle ragazze.

Ci sono modalità di trasmissione della Memoria che hanno fatto il loro tempo. Lo vedo negli occhi dei ragazzi e delle ragazze, proprio nella scuola. La retorica dei discorsi celebrativi che riepilogano i fatti più dolorosi per provocare una partecipazione emotiva. I resoconti storici che vengono conclusi dagli adulti con l’imperativo categorico del Mai Più o del Senza Memoria non c’è futuro, appaiono alla platea dei più giovani – di fronte alle urgenze del Tempo presente – impegni stanchi, deboli, rami secchi dai quali non vedono nascere niente. Le celebrazioni retoriche sono diventate un pericolo: rischiano, in futuro, di allontanare definitivamente dall’orizzonte del Tempo presente, la Storia della Memoria. Non sono però contro la ricorrenza del Giorno della Memoria, per parlare chiaro. Anzi, ritengo che sia un richiamo che consente di ritualizzare un appello sacrosanto, di responsabilità, agli esseri umani, di fronte alla nostra Storia. Ciò su cui, io credo, dovremmo riflettere sono alcune modalità commemorative che non trovano più ragione di essere, soprattutto dentro la scuola, soprattutto oggi.

Nella Carta di Gariwo questa percezione del rischio, in generale, è chiarissima e infatti ne viene sottolineato l’effetto corrosivo.

“Quel mai più ripetuto in modo rituale e retorico è diventato una parola vuota senza alcun progetto per il futuro. Per alcuni il mai più è l’idea della difesa dell’identità ebraica e dello Stato d’Israele. Per altri il ricordo del genocidio armeno, per altri è l’impegno nei confronti di qualsiasi male generico. Non si capisce allora a quale fine dovrebbe essere indirizzata la memoria. È come se si creasse un vuoto invalicabile tra un passato tragico e il nostro agire nel mondo. Nessuno allora si chiede in modo autocritico cosa è andato storto in questi anni e quanto noi contemporanei non siamo poi riusciti a fare. Possono dunque accadere le cose peggiori nel mondo, come scrive Valentina Pisanty, e ci consoliamo con il rito della memoria dove ci sentiamo tutti giusti e buoni ex post”.

La Shoah è un evento unico nella Storia. E convoca i più giovani

In questa trasmigrazione dell’umanità da un’epoca a un’altra vediamo cambiare anche la percezione dei ragazzi e delle ragazze su come, loro, si proiettano nel futuro. Sono cambiate le priorità delle aspettative e dei desideri. Così come le riflessioni che li accompagnano dentro il mondo. L’incertezza e la precarietà della contemporaneità sono acquisite dagli adolescenti come certezze. La pandemia li ha resi consapevoli che il futuro è minacciato: il cambiamento climatico, le massicce migrazioni che potrebbero cambiare gli equilibri della vita sulla Terra, un sistema di mercato capitalista che infligge loro una competizione feroce e, in nome della vittoria sui propri simili/competitors, li spinge a guardare all’altro con diffidenza. Questa fragilità esistenziale si traduce, fra l’altro, nella perdita di punti di riferimento valoriali forti, a cui tenersi saldi dentro il mondo. Eppure, nonostante questo, o forse proprio per questo, i ragazzi e le ragazze hanno bisogno, e chiedono, di essere convocati dentro una Storia definitiva, sintesi del bene e del male, che li chiami a scegliere da che parte stare. Come è la Shoah.

Che la Shoah sia un evento unico dentro la nostra Storia, io lo credo. Ha segnato un confine fra quello che era prima il mondo degli uomini, e quello che si è rivelato da allora.

Fu Primo Levi a darmi la misura di questa rivelazione.

Nel libro I sommersi e i salvati, Primo Levi enuncia alcuni passaggi del libro della giornalista austriaca Gitta Sereny, In quelle tenebre. Gitta Sereny nel 1971 ha intervistato Franz Stangl, comandante del campo di sterminio di Treblinka, rinchiuso nel carcere di Dusseldorf. Quella lunghissima intervista, durata molti mesi, diventerà un libro, uscito in Italia nel 1975, per Adelphi. Dopo che Primo Levi ne aveva ripreso alcuni passaggi chiave, ho sentito il bisogno di leggerlo. Franz Stangl non era solo il comandante di Treblinka, aveva già partecipato all’operazione conosciuta come Programma T4, il programma di Eutanasia, come lo chiamavano i nazisti, ovvero lo stermino delle persone disabili, in Germania. Oltre 30 mila persone assassinate con modalità diverse, anche loro per la colpa di essere nate: no, non erano ebrei, erano bambini donne uomini e anziani, disabili o affetti da malate croniche. Vite inutili per il regime. Tutta la politica hitleriana era basata sulla supremazia della razza superiore su quelle inferiori: le persone con disabilità erano considerate inferiori, a qualunque popolo appartenessero.

Nel libro, In quelle tenebre, scrive Gitta Sereny: Non fu soltanto la politica che vi era sottesa che distinse lo sterminio nazista degli ebrei dagli altri casi di genocidio. Anche i metodi impiegati furono unici e ideati in modo unico. Le uccisioni erano sistematicamente organizzate in modo da ottenere la massima umiliazione e la disumanizzazione delle vittime, prima di ucciderle. Era una politica calcolata per uno scopo ben preciso, non era l’effetto di “semplice” crudeltà o indifferenza…

Dopo questa riflessione la giornalista austriaca chiede a Franz Stangl: Visto che li avreste uccisi tutti che senso avevano le umiliazioni, le crudeltà?

Stangl rispose: Per condizionare quelli che dovevano eseguire materialmente le operazioni. Per rendergli possibile fare ciò che facevano.

Primo Levi, ne I sommersi e i salvati, commenterà quest’ultima affermazione di Stangl scrivendo un passo importantissimo per la comprensione della unicità della Shoah.

“In altre parole – scrive Primo Levi – prima di morire la vittima deve essere degradata affinché l’uccisore senta meno il peso della colpa. È una spiegazione non priva di logica, ma che grida al cielo”.

Vero. Se non questo, cosa altro, grida al cielo?

A che ci serve la Memoria? Ad attrezzare i ragazzi e le ragazze a ostacolare i carnefici.

Credo che la Memoria possa avere – dentro un percorso lungo e articolato, non privo della comparazione con i genocidi e i totalitarismi odierni – , una grande influenza formativa per le nuove generazioni. A patto, però, che il racconto che ne faremo sarà attraversato dall’autenticità. Il che vuol dire, fra l’altro, ammettere che noi adulti non siamo riusciti – da allora a oggi – a dare compimento a quel mai più, gonfio di retorica vittoriosa quanto menzognera: basti pensare ai genocidi e ai totalitarismi che continuano a infliggere torti e orrori ai popoli della Terra.

Sì, penso che dovremmo, noi adulti, di fronte ai giovani, ammettere le nostre responsabilità di fronte al mondo che gli consegniamo. Dirgli che abbiamo bisogno di loro per dare corso a una promessa che forse onorerebbe più di qualsiasi discorso celebrativo le vite spezzate della Shoah: quella di conservare la Memoria affinché ci orienti a riconoscere, e denunciare senza mai tacere, i carnefici nel mondo.

In fondo, in quella Storia è già scritto tutto, a cominciare dalle molteplici sfumature di sentimenti e comportamenti che si determinano nella specie umana nel momento in cui l’individuo si trova a essere da una parte o dall’altra del filo spinato.

“La Memoria a livello educativo – è scritto nella Carta di Gariwo – è stata una grande scuola perché ha permesso di comprendere come i genocidi non sono stati una catastrofe extrastorica, ma sono avvenuti per la responsabilità degli esseri umani. È accaduto in un campo di battaglia dove c’erano carnefici, complici, spettatori indifferenti, resistenti, Giusti e tutte le sfumature intermedie che, come Primo Levi sapeva e ci ha descritto, sono numerosissime. Nelle scuole i giovani hanno potuto così apprendere che di fronte al nazismo e ad ogni forma di male estremo si poteva scegliere, poiché nulla era scontato e determinato a priori”.

Infine. A Primo Levi, sempre a lui, dobbiamo il racconto della vergogna dei Giusti di fronte al male altrui, che non deve mancare nel racconto della Shoah ai ragazzi e alle ragazze. L’orrore non deve mai avere il primato della narrazione quando la si porge alle nuove generazioni. Primo Levi in queste poche righe insegna il senso ultimo della partecipazione al dolore altrui. Ci insegna, in fondo, che la compassione profondamente partecipata può emergere solo dal nostro senso di giustizia.

Ne, La Tregua, Levi racconta i primi soldati russi che entrano nel lager gremito di cadaveri abbandonati sulla neve e di uomini ridotti a fantasmi che si aggirano nel campo.

“Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno che sigillava le loro bocche e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa e non abbia valso a difesa”.

È la stessa vergogna che ho ascoltato nella voce di Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz. Quando ha visto andare a morire Janine, una ragazza che lavorava insieme a lei nel lager, in una delle selezioni naziste. Liliana ricorda che non si è girata, non le ha detto addio. Avrebbe voluto, non lo ha fatto. Per paura, per sopravvivere. Liliana Segre, come altri sopravvissuti, ha dovuto portare dentro di sé quella vergogna profonda che il carnefice non provò mai. Un delitto che, per riprendere le parole di Primo Levi, grida contro il cielo. E contro l’umanità tutta. Vale sempre la pena testimoniare, ognuno come può, la Memoria, per almeno due ragioni: affinché i ragazzi e le ragazze nutrano rispetto per la vergogna del Giusto di fronte al male.

E per fornire loro gli strumenti per diventare cittadini attivi, che significa anche attrezzarli a riconoscere – E OSTACOLARE – i carnefici.