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stregaUn’isoletta al largo delle coste irlandesi, una comunità di pescatori e agricoltori che nasconde antichi rancori e gelosie, morti e incidenti inspiegabili e una pietra, pregna dell’antica magia dei druidi celtici dediti al culto della Morte, che tenta di ricostruirsi.

È la trama di The Stone-la Settima Pietra (Piemme 2017), romanzo con cui il socio Guido Sgardoli si è aggiudicato il Premio Strega Ragazze e Ragazzi 2019.

Ecco la sua intervista.

Hai già vinto numerosi premi. Questo però ha un sapore speciale. Perché?

Prima di tutto perché assegnato direttamente dai ragazzi, che votano i libri finalisti. Ma non solo. In soli quattro anni il Premio Strega Ragazze e Ragazzi ha assunto una visibilità mediatica unica, che permette a noi autori di letteratura cosiddetta per ragazzi (ragazze) di aumentare il nostro bacino di utenti. Si è dibattuto spesso, anche in ICWA, relativamente al fatto di non riuscire ad arrivare degnamente a giornali e televisioni. Questo premio ci riesce. Non può che nascere qualcosa di positivo per l’intero movimento. 

Te lo aspettavi?

No. Ma mentirei dicendo che non ci speravo. Per me è stata la ciliegina sulla torta di una carriera totalmente inaspettata. Devo dire che ho sempre lavorato tanto, sui libri, sulle storie, sullo stile, sui linguaggi, sulle frasi e le parole, con i ragazzi (e le ragazze), in tutte le direzioni, esplorando, a volte sperimentando, sforzandomi di essere sempre diverso, di non ripetermi. Forse tutto questo è stato riconosciuto.    

Tra le pubblicazioni per ragazzi molte affrontano tematiche precise, legate spesso all’attualità o a episodi storici. The Stone invece è pura narrativa d’evasione. Credi che i ragazzi abbiamo bisogno soprattutto di queste storie?

Forse non soprattutto, ma sicuramente anche di queste storie. The Stone era un libro non semplice da pubblicare, ma una volta arrivato nelle mani dei lettori è piaciuto subito. C’è bisogno di storie. I temi nelle storie devono esserci, ma io, anziché partire da un tema e costruirci una storia intorno, preferisco trovare una buona storia da raccontare e poi lasciare che i personaggi sviscerino i temi, che sono nelle nostre vite, nella nostra quotidianità, indipendentemente dall’epoca e dallo spazio in cui si muove il romanzo. 

 

Molti insegnanti però, che sono uno dei veicoli principali dei libri tra i ragazzi, privilegiano romanzi più a tema.

Ci sono molti insegnanti, purtroppo, non informati, non aggiornati, che si adagiano o scelgono le via più facile, che guardano e ragionano in una sola direzione. Ci sono libri che hanno ottenuto grandissimo successo tra i lettori senza essere mai passati nelle scuole, tra le mani di insegnanti che non li avrebbero mai promossi.

Hai scritto romanzi con argomenti molto diversi tra di loro. The Stone è un horror. Il tuo primo horror. Come sei arrivato a scrivere questa storia?

È semplicemente la storia che avrei voluto leggere quand’ero adolescente e che, forse per colpa mia, non ho incontrato. L’ho scritta a mio uso e consumo sperando che piacesse anche ai ragazzi e alle ragazze di oggi. Un’operazione simile l’hanno compiuta i fratelli Duffer con la serie televisiva Stranger Things. E hanno avuto ragione.

Gli autori italiani non ricevono praticamente mai riconoscimenti internazionali. Forse perché siamo poco tradotti, o davvero la nostra scrittura non è all’altezza?

La nostra scrittura è assolutamente all’altezza di quella degli autori stranieri e anglosassoni, che troppo spesso vengono presi come punti di riferimento. Personalmente sono tradotto in diciotto Paesi e dodici lingue, sono invitato a festival e fiere del libro fuori dai confini italiani e recentemente editori inglesi e americani hanno opzionato alcuni miei libri. Ma non sono l’unico. Qualcosa si muove. Dobbiamo però essere noi, per primi, a credere di essere all’altezza, a scrollarci di dosso un inesistente complesso di inferiorità. Per fare questo, però, dobbiamo anche lavorare di più e meglio, uscendo da quella che molti autori considerano la loro personale comfort zone, una dimensione nella quale muoversi in sicurezza (temi, scuole, insegnanti, editori compiacenti) e osare, spingere di più. Anche rischiando. 

Tu da tempo hai lasciato la tua prima professione di veterinario per vivere esclusivamente di scrittura per ragazzi. Come ci sei riuscito? Che consigli daresti a chi sogna di seguire le tue orme?

Vivere di scrittura in Italia è molto difficile. Ne conosco pochi di autori che ci riescono. Bisogna scrivere molto e soprattutto diversificare: libri, giornali, cinema, tivù, collaborazioni. E poi saper curare i propri interessi, migliorare i propri contratti, ottenere maggiori royalties, vendere molto all’estero. Un libro venduto in Italia vale un libro; lo stesso libro tradotto in n Paesi vale n volte senza però la fatica di scriverlo n volte! Ricordo la prima volta alla fiera di Francoforte, anni fa, per capire come funzionava il mercato estero. Bisogna diventare agenti di se stessi.

Hai un agente o di muovi da solo tra gli editori?

Ho una rete vendite che si occupa dei miei libri all’estero. Per l’Italia mi relaziono direttamente con gli editori, come ho sempre fatto dall’inizio. Con alcuni c’è un vero rapporto di amicizia.